1979: Cambio al vertice della società,cambio di mentalità.

Da Anzalone a Dino Viola

Il primo non aveva mai osato pensare allo scudetto, "l'ingegnere" invece lo punta con tutte le sue forze. Questa differenza darà una svolta alla società. Torna Liedholm, arrivano Ancelotti e Benetti.

Questa era la Roma quando nel maggio 1979 ci raggiunse la telefonata mattutina di Dino Viola che volendo smentire -anzi precisare- in realtà confermò. Questa era la Roma e anche peggio, se si considera che il racconto ha voluto trascurare sgradevoli particolari dell'esonero di Giagnoni (tipo: una sassata in testa all'allenatore al termine del famoso Roma-Torino che fece precipitare le cose) e delIa definitiva decisione di Anzalone di abbandonare la scena (tipo: durissimi e volgari volantini contro di lui distribuiti prima della partita con il Verona). Anzalone rivela che la causa principale del suo abbandono fu un ammutinamento mai registrato dalle cronache: una rivolta morale, nel senso che alcuni tra i famosi ragazzi della Primavera credettero che la cosa più importante da fare non fosse vincere una partita ma schierarsi dalla parte di Viola: cosa che fecero con uno scatto mai avuto nei confronti di un avversario, in campo. Può sembrare banale, una ragione del genere, solo a chi non conosce Anzalone e i suoi ideali, le sue incorruttibili fedeltà. Anzalone non fece mai il passo più lungo della gamba, e azzardò solo nell'ingaggio di Pruzzo: è difficile credere che questo aspetto del personaggio debba essere inteso come un difetto. Non era il presidente ideale per la Roma? Questo
è un altro discorso, ognuno ha le sue convinzioni. Se si vuole restringere tutta la vicenda in una sintesi, eccola: GaetanoAnzalone non avrebbe mai osato pensare allo scudetto; Dino Viola aveva solo lo scudetto in testa. Accompagnato dall'idea quasi morbosa della guerra totale ai potenti del calcio italiano. In nome della Roma e di se stesso, cioè della propria bravura. Anzalone si sarebbe fatto, al pensiero, il segno della Croce.

Nils, tribolato arrivo

Quando l'ingegnere decise di afferrare le briglie della Roma, già sapeva tutto. Aveva studiato gli uomini, aveva preparato i programmi. Aveva anche, idealmente, cinto d'assedio il Palazzo, sapeva da che parte aprire la breccia. Anzalone si era spesso chiesto: cosa vuole questo Viola? Viola lo sapeva fin dal primo giorno, con una premeditazione lucida e cinica. Non aspettava che la Roma si piegasse sulle proprie ginocchia, non voleva vederla ferita: Dino si preparava a dedi carIe la vita. Siccome sapeva tutto, aveva già preso contatti con Nils Liedholm, che intanto aveva vinto lo scudetto con il Milan: il decimo, quello della stella. E questo -secondo Viola- serviva a dimostrare che l'infelice esito della prima «campagna» di Nils nella capitale, quella condotta sotto le insegne di Anzalone, non era dipeso dall'allenatore. Il ritorno di Liedholmfu l'epilogo di una tiritera estenuante, da logorare ogni umana pazienza. Per avere Liedholm,. che come sappiamo aveva vinto lo scudetto con il Milan e godeva di una conferma scontata, Viola fece leva sulla durata del contratto. Il rapporto tra Milan e Liedholm aveva scadenza annuale, Viola mise sotto gli occhi increduli e ammirati del Barone un contratto triennale. A condizioni economiche inferiori? Pazienza, insisteva Viola, contava la stima sul piano umano: e quel contratto stagionale del Milan, quali diffidenze e quali riserve mentali nascondeva? Fu, tra Liedholm e Viola, una guerra tra «dritti»: perchè il Barone assunse le proposte della Roma come strumento di pressione sul Milan: voi mi date altrettanto? Se il Milan avesse risposto sì, Liedholm a Roma non sarebbe mai venuto.
Il Milan rispose no, ed ecco Nils di nuovo accampato sulle colline dell'EUR. Tutto era pronto, tutto era preparato. Anche gli accordi erano già stati conclusi, specie quello più importante, l'acquisto del centrocampista Carlo Ancelotti dal Parma. In quel caso giovò alla causa la fraterna amicizia tra i due presidenti. Fu una campagna acquisti per alcuni versi sostanziosa (Ancelotti) e per altri solo spettacolare, ma comunque non particolarmente laboriosa. Quando arrivò, per il centrocampo, anche lo juventino Romeo Benetti che quasi toccava i trentacinque anni, qualche dubbio attraversò gli entusiasmi giallorossi; quando arrivò anche, per la difesa, Maurizio Turone che di primavere ne aveva trentadue, sembrò che la Roma fosse nient'altro che un mondo capovolto: l'altra faccia della Roma dei giovani, la Roma anzaloniana. Un lussureggiante autunno invece di una fragrante primavera. La verità, dov'era? Il primo vezzo di Liedholm, appena arrivato, fu quello di fingere di non essere informato su Bruno Conti. «Che fine ha fatto, quel ragazzo di Nettuno?». Sapeva benissimo che Bruno non aveva avuto a Genova una buona stagione, per le ragioni che conosciamo. Nils incalzò: «Lo vorrei avere con me». Non fu difficile far tornare il ragazzo di Nettuno: il Genoa presentò alle buste solo un' offerta formale, che non comprendeva alcun seria intenzione di trattenere il giocatore.

Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport

 

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